#darkinsight – Intervista ai Darvaza Wave

Ci siamo conosciuti attraverso Dark Circle e ho subito apprezzato il loro suono. Ora i Darvaza Wave, attraverso la voce di Luca Zaniboni, ci aprono le loro personali… porte dell’Inferno.

Grazie ai nostri contatti precedenti conosco già la risposta, ma è una storia troppo affascinante per essere tenuta riservata: qual è l’origine del nome della band? E come si è passati da Darvaza a Darvaza Wave?

Ciao Cristina, intanto grazie per avermi (averci) concesso questa intervista, lo spazio Dark Pages che hai ideato e curi è davvero molto interessante da seguire, e volevo innanzitutto farti i complimenti a riguardo. Giungendo al punto, Darvaza è una parola persiana che indica la “porta dell’inferno”, un luogo buio di confine tra la vita e l’ignoto, fuori dal tempo. Darvaza non è un luogo immaginario, è reale e si trova nel deserto del Karakum in Turkmenistan, un cratere nato dal collasso di una rete di gallerie sotterranee, in cui il gas naturale brucia continuamente, senza sosta.

Si parla spesso dei suoni oscuri provenienti da Darvaza, associandoli ai demoni delle tradizioni popolari, esseri intrappolati negli inferi dalle fiamme stesse. Abbiamo scelto questo nome per via dell’associazione tra due mondi, quello dei vivi e quello soprannaturale dei morti, spiriti, angeli e demoni, che viene richiamata. Il passaggio a Darvaza Wave in realtà è stato dovuto all’esserci resi conto, nel 2018, che esisteva già una band metal norvegese chiamata Darvaza. Dato che avevamo già raggiunto un minimo di notorietà e che il concetto evocato dal nome ci piaceva troppo, abbiamo deciso di non discostarci. L’aggiunta della parola Wave è sia un omaggio alla darkwave che ci ispira, sia rende l’idea di un concetto di movimento e diffusione della musica: ci piace pensare che l’”onda” della nostra musica esca dalle fiamme e dai sussurri provenienti dagli inferi di Darvaza.

Anno 2020: annus horribilis, ma voi, come molti artisti, non vi siete fermati. Come avete raccontato la pandemia?

Il 2020 è stato tremendo sotto molti aspetti, sia dal punto di vista umano che artistico. Ricordo la tristezza di quel momento, nel pensare di vivere magari a 100 metri di distanza da persone care, e non poterle nemmeno salutare e abbracciare. In questa situazione inaspettata e di estrema alienazione, abbiamo deciso di provare a raccontare le nostre emozioni con “Bastion” e il suo videoclip. Per realizzarlo, abbiamo contattato vari amici e fan provenienti da tutto il mondo e abbiamo chiesto loro di inviarci una sequenza in cui mostrassero la loro solitudine, inquadrandosi con un selfie video e poi mostrando la desolazione delle strade vuote attorno a loro. Il risultato è stato emozionante e se ci pensiamo stentiamo ancora a credere che nella clip siano presenti testimonianze provenienti da ovunque: dalla Spagna alla Danimarca, fino al Giappone, l’India, il Messico e la Nuova Zelanda. In quel momento eravamo tutti uguali, che fossimo distanti un isolato o 10000 km eravamo tutti lontani fisicamente, ma uniti a livello di emozioni e fratellanza.  

Ogni musicista si porta dentro un passato fatto di esperienze di vita, libri, film… Nel processo creativo che sta dietro una canzone preferite utilizzare storie di fantasia oppure le vostre storie personali?

Non è facilissimo dare una definizione netta al processo creativo che porta allo sviluppo dei nostri pezzi. Direi che la verità sta nel mezzo. Posso portarti prima di tutto l’esempio della scrittura dei testi, dove mi sento particolarmente legato a una ricerca interiore, mistica, della verità assoluta, delle risposte al senso di vivere, dell’esistenza, del ciclo delle vite e dell’eternità.

Questo si fonde spesso ad esperienze passate, come nel nostro EP “Bastion Knights” (prodotto in collaborazione con l’etichetta di distrubuzione Crunchpod, di Los Angeles): una serie di luoghi che abbiamo visitato e a cui siamo legati (Scandinavia in generale, Città Libera di Christiania a Copenhagen, Monte Atavyros sull’isola greca di Rodi) portano ad analogie e ricerche legate al cammino dell’essere umano, con i suoi misteri e i sentimenti forti che lo legano alle anime affini.

Siamo legatissimi a un bagaglio culturale di film, libri ed altra musica, che evocano a loro volta la nostra musica e le nostre storie. “Sleep Like My Soul” è musicalmente un omaggio alla newwave synth pop Anni 80. Il testo invece è ispirato a Space Oddity del grande David Bowie: nel nostro brano, Major Tom è ormai certo di essere perduto, e chiede quindi al controllo a terra di inviare via radio un’ultima canzone per poter ballare un’ultima volta, mentre fluttua verso l’infinito dello spazio. Infine, ci sono “The World (of the Elder Things)”, ispirata sia nel brano che nel video (realizzato da Envyda ed Exformatmovie srl), al libro “A Chi Appartiene la Notte” di Patrick Fogli… e la nostra ultima “Crow’s Tears”.

Crow’s Tears è stato il vostro personale omaggio a Il Corvo per il trentennale della sua uscita. Questo film è stato così “abusato” che quasi ne abbiamo dimenticato la vera poesia. Quale scena vi fa ancora emozionare?

Hai detto bene. Spesso il film è associato prevalentemente alla sua dimensione estetica (che è effettivamente potentissima), ma la trama è così toccante da lasciare un solco ogni volta che lo si riguarda. Non è facile scegliere una scena, è uno di quei pochi film in cui non ne esiste nemmeno una che sia deludente.

Per me è difficile trattenere la commozione quando vengono evocati i momenti della vita di Eric con Shelly, quando si prepara e si trucca con “Burn” dei Cure, oppure quando in chiusura viene detta da Sarah la frase “le case bruciano, le persone muoiono, il vero amore è per sempre”. Le scene dell’assolo sul tetto e di lui che viene avvolto dalle fiamme dell’esplosione del banco dei pegni sono invece esteticamente perfette.

Il panorama musicale italiano in ambito gothic e dark wave è davvero molto ricco e diversificato. C’è qualche band contemporanea, fra queste, che sia per voi di autentica ispirazione?

Come hai detto, ci sono veramente tante band interessanti e degne di nota. È molto bello seguirne la devozione a una ricerca della perfezione nel suono e nell’estetica, nella quale ci riconosciamo e ci sentiamo per questo molto legati. Anche qui, selezionarne una non è facile, perché tutte riescono a distinguersi in modo particolare.

Mi vengono in Mente i Les Longs Adieux. La voce femminile quasi contralto e in italiano è particolarissima. Inoltre hanno un sound molto interessante e originale, che si fonde con la dance anni 80 e rievoca pietre miliari del genere dark, ma senza imitarle.

Live, concorsi, collaborazioni: la musica non è solo un’arte astratta, ma si può tradurre in molte esperienze diverse. Quale ricordate con più affetto oppure, al contrario, quale vorreste, tornando indietro, cancellare e rifare daccapo?

Ci sono state davvero tante esperienze positive… E tutte le collaborazioni sono state importanti. Se dovessi scegliere un live invece ti direi quello di Rivoli (Torino) del 13 gennaio 2024, per Scene dal Vivo. È stato incredibile, perché si trattava di una rassegna che coinvolgeva grandissimi musicisti jazz e classici. Noi eravamo degli outsider, ma per qualche motivo il pubblico ci ha apprezzati moltissimo.

A fine concerto un signore distinto in giacca e cravatta mi ha fermato e, dandomi del Lei, mi ha detto “Veniamo da mondi diversi, ma tra di noi questa sera si è creato un ponte energetico”. È una frase che ricorderò fino alla fine dei miei giorni, e oltre. Ringrazio davvero la nostra amica e collaboratrice Tiziana per averci portati a suonare in questo contesto.

Quasi tutte le esperienze, anche quelle negative, insegnano qualcosa e ti portano a quello che sei ora, quindi non c’è un’esperienza che non rifaremmo… Certo, quando penso ai primi piccoli concorsi su scala locale, con tutti i loro limiti organizzativi e professionali, mi viene da sorridere.

Tre libri, dischi o film da portare su un’isola deserta

Ovviamente Il Corvo, poi Closer dei Joy Division e i racconti di Lovecraft.

Una frase da incidere all’ingresso di ogni live club, rivolta agli spettatori

Il passato è nel vostro futuro, godetevi il presente perché è fuori controllo (Citando parzialmente Ian Curtis in “Heart and Soul”).

Un consiglio per chi dovesse avervi scoperti oggi: qual è il primo brano da cui cominciare ad ascoltarvi?

L’ultimo, “Crow’s Tears“. E poi continuate con “The World (of the Elder Things)“.

[Ringraziamo Luca! E ricordiamo che i Darvaza Wave sono:

Luca Zaniboni: voce, effetti PAD, basso in studio

Saverio Turetta: chitarra

Claudio Zurlo: tastiere, synth

Riccardo Franzoi: batteria, basso in studio

Andrea Privato: basso (live)]

E li troviamo su:

Instagram, Facebook e darvazawave.com