Quest’intervista non nasce dalla mera curiosità o dalla pregressa conoscenza di Michele e Alessandra. Quest’intervista era semplicemente necessaria, perché la qualità e l’intensità dei Varg I Veum non si limitano a un “lavoro ben fatto” e meritano di essere raccontate, direttamente dai protagonisti.
Da dove nascono il nome e il concept dei “Varg I Veum”?
Il nostro nome è un prestito dal nordico antico vargr í véum (letteralmente “lupo nel santuario”), la locuzione con la quale nella legge vichinga venivano marchiati i profanatori dei luoghi sacri, puniti con l’esilio.
Come abbiamo scritto nel nostro “manifesto”, le parole sono azioni nelle culture orali e il ritorno a una tradizione come quella norrena, senza teologia, senza redenzione, tradizionalmente sentita, nel fatalismo di una prospettiva cupa e sbilanciata, più come strumento d’interpretazione che come corpus di rassicuranti storie eziologiche, rappresenta un momento per ripensare un disegno universalmente umano.
Brano dopo brano, in un desolato vortice monologico, intravediamo un ordine superiore prendendo coscienza di noi stessi, della nostra condizione di Varg i Veum e di quello che è il nostro impossibile posto nel mondo.
Questo con i Varg I Veum sembra, almeno da fuori, un nuovo inizio per artisti con esperienze già consolidate. È così? Possiamo dire che il passato è passato?
Il passato non è mai davvero passato: è il nostro background e ci accompagnerà sempre come un bagaglio di esperienze e di ricordi.
Varg i Veum tra l’altro è un progetto che è rimasto a lungo nel “mondo delle idee” e adesso che siamo riusciti a renderlo reale ci proietta verso il futuro.
Siamo piuttosto sicuri della ricchezza di significato dei testi dei vostri brani. Ce ne raccontate uno a vostra scelta?
“Wolf’s Bane” è un po’ la summa concettuale dell’intero album. Qui l’esilio è una visione offuscata dalle lacrime, il sogno di un ritorno glorioso verso “utopie geografiche” intese come asili perfetti, oblio del mondo e negazione del presente, attraverso la grandiosa tenebra gnostica che percorre l’universo. Si conosce patendo, attraverso un’erranza trascendentale, irrequieta e disarmonica come il contesto storico – sociale che abbiamo intorno. Ci si sente consegnati all’arbitrio di un destino retto dall’invidia degli dei malvagi, come cantiamo in “Hoarfrost”.
Per Alessandra: com’è stata la sensazione di riascoltare per la prima volta da un disco la propria voce “fisica” (perché di fatto quella artistica e intellettuale era sempre stata ben presente)?
Terrificante (non invio nemmeno i vocali…)!
Durante gli anni del liceo ho studiato musica lirica, ma non sono mai voluta salire su un palco, non ho mai voluto mettermi veramente in gioco. Ho comunque sempre vissuto il timore di espormi con un certo rimpianto e alla fine, soprattutto grazie al sostegno e all’incoraggiamento di Michele, mi sono imposta di superare questo limite (malgrado ormai buona parte di tecnica sia andata persa).
Per Michele: essere in grado di stare sia sul palco che dietro al mixer rende le cose più facili o si rischia di diventare morbosamente perfezionisti?
In realtà non rende le cose né più facili né più difficili. Cambia completamente l’approccio sia alla produzione musicale che alle performance dal vivo. Avere un certo know-how tecnico aiuta sicuramente a superare alcuni scogli nella scrittura o nell’arrangiamento dei brani, nella produzione dei suoni e, non da ultimo, nella risoluzione di eventuali problematiche che si possono riscontrare live. Dall’altro lato è senz’altro vero che un tecnicismo troppo spinto induce a perseguire un livello di perfezione che è più ideale che raggiungibile, a scapito della componente emozionale. Diciamo che mi sforzo di cercare il giusto equilibrio.
La musica nei social, ovvero il luogo del rumore. Di Facebook, IG e compagnia non si può proprio fare a meno?
I social sono mezzi: tutto dipende da come li si utilizza e cosa ci si aspetta. Sicuramente favoriscono una più o meno rapida risonanza e possibilità di comunicazione di una portata ben più ampia della scena locale, raggiungendo persone dall’altra parte del mondo. È come quando si dice che, potenzialmente, grazie ad internet avremmo tutto lo scibile umano a portata di click, ma lo usiamo per postare le foto della colazione.
Le esibizioni live: quanto contano nell’era del digitale e del “tutto e subito”? Ne avete in programma?
Le esibizioni dal vivo restano una parte fondamentale proprio per il nostro modo di concepire e ascoltare musica. Un bel live è sempre “tutto e subito”, un momento unico al quale un vero fan non vorrebbe mai rinunciare.
Tre dischi, film o libri che portereste su un’isola deserta.
Ci abbiamo riflettuto e alla fine abbiamo concordato una risposta unitaria: i dischi, i film, e i libri che ci hanno in qualche misura segnati li porteremmo comunque a prescindere, dentro di noi. Per cui scegliamo di portare una chitarra, una bottiglia di vino e un blocco notes per guardare avanti.
Una frase da incidere all’ingresso di ogni live-club (quelli che ancora esistono), rivolta agli spettatori.
“Enter for Music!”
Ringrazio gli amici Varg I Veum ansiosa di incontrarli al loro live di debutto all’Ekidna, a Carpi, il prossimo 13 aprile.
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